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Anglismi e l’analfabetismo di ritorno. Lo stile giornalistico italiano alla deriva

Treviso. Premessa: il 2021, anno di Dante? Un anno intero dedicato al nostro mito nazionale che tutti ci invidiano e, che per sua fortuna, scusate l’involontario umorismo anglosassone di scarso spessore comico, non sarà presente a festeggiare insieme a noi il suo trapasso di sette secoli fa? Siamo proprio sicuri di volerlo fare? 

Ne vale proprio la pena quando oramai lo sforzo “intellettuale” preferito in italia è quello di massacrare e di delegittimare senza pietà e coscienza la nostra lingua ufficiale (l’ITALIANO!), sostituendola giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno con l’inglese? È proprio vero che non abbiamo spina dorsale, che siamo, ahimè, un popolo di pessima memoria storica e, peggio ancora, di scarsissima coerenza culturale.

È imbarazzante, tristissimo, sconcertante notare poi che persino la stessa categoria dei giornalisti con gli “anta” anagrafici sul proprio documento d’identità, partecipi senza sensi di colpa e, quindi, senza una minima volontà di fare retromarcia, nella gara a chi sciorina più anglismi in un articolo di giornale, in un servizio del telegiornale o del radiogiornale di turno (per non scrivere anche su quello che accade nei programmi radiofonici e televisivi di intrattenimento di vario genere). C’è da chiedersi quale logica, che senso ci sia nel dire “come si dice in inglese”, nello stampare sui giornali o registrare sull’audio di un servizio giornalistico della radio o della televisione parole che non hanno nulla a che fare con la nostra lingua nazionale. Persino i vocabolari di “italiano” (?!) di fresca stampa sono sempre più infarciti di un numero considerevole di anglismi che non c’entrano nulla con la nostra lingua, con la nostra cultura.

L’accelerazione delle innovazioni tecnologiche degli elaboratori di calcolo negli ultimi decenni del secolo scorso portò in modo inevitabile, non esistendo ancora i corrispettivi in italiano, all’assimilazione diretta nel nostro linguaggio di tutti i giorni delle parole del vocabolario informatico di riferimento. D’accordo, allora ci poteva stare, ma allora, solo e soltanto allora. Non più oggi, nel 2021! Qualcuno dovrebbe spiegare infatti a chi disperatamente cerca di sensibilizzare l’opinione pubblica del gravissimo pericolo che da tanto, troppo tempo sta correndo la lingua italiana, cosa c’entrino le parole “fashion, taste, vintage, partner, start up, booking, crime, hot spot, hub, triage,…” ed altri 3490 anglismi con il linguaggio dell’informatica e degli elaboratori di calcolo di origine straniera usato a pretesto per giustificare il fastidiosissimo utilizzo delle parole INGLESI (!), scriviamolo di nuovo, INGLESI (!!), nelle nostre conversazioni quotidiane, negli articoli di giornale, nei documenti amministrativi di ogni forma e grado, nei referti medici, nei programmi sportivi, nelle campagne pubblicitarie e così via.

Ovunque in Italia, purtroppo, da decenni imperversa senza soluzione di continuità la contaminazione linguistica degli anglismi. È chiaro ed indiscutibile oramai che l’attività più in voga fra i “creativi” della comunicazione parlata e di quella scritta sia rimasta solo quella di “arricchire” i propri discorsi, le proprie frasi con termini in INGLESE (!), riscriviamolo fino alla noia, in INGLESE (!!), snobbando di proposito il nostro vocabolario di italiano.

Ancora più disarmante ed angosciante è il fatto che nessuno, a differenza di quanto già avvenuto in altri paesi europei, non si sia ancora posto il problema di mettere fine a questa pestilenziale usanza, questa velenosa consuetudine che sta, in senso figurato, uccidendo la nostra lingua nazionale.

Nessuno infatti fino ad oggi è intervenuto con risolutezza. Sono tutti latitanti o, peggio ancora, complici passivi di un delitto annunciato. Sorvoliamo con sincero sentimento cristiano sull’imbarazzante categoria dei politici sempre dediti anima e corpo, persino in piena pandemia, al gioco delle poltrone nei palazzi delle istituzioni. L’Associazione dei giornalisti? Assente. I direttori delle testate giornalistiche? Distratti dai quotidiani inviti delle emittenti televisive. I caporedattori? Perennemente irreperibili. I redattori? Conniventi fino all’inverosimile.  Gli editori? A giocare in Borsa.

Come poi scritto di recente, a tutto questo si devono purtroppo pure aggiungere l’assoluta anarchia nell’utilizzo della sintassi e della grammatica italiana, l’evidente impoverimento del vocabolario dei singoli professionisti che sfruttano fino al limite della sopportazione gli stessi termini più e più volte, ignorando le valide alternative del nostro dizionario dei sinonimi e contrari (criticità, ristori, resilienza, e così via), e, per finire in bellezza, la strampalata e poco edificante recente pigrizia mentale di ricorrere sempre di più in modo compulsivo agli acronimi.

Non si sprecano infatti fino a giungere alla noia gli imbarazzanti DAD, CTS, OS , DPCM, AD, UE,  e via scrivendo. Qualcuno poi, di recente, in un servizio della testata giornalistica di Radio1, si è persino permesso di pronunciare l’acronimo PMI con una pronuncia di chiara origine anglosassone. Complimenti a “Matrigna Rai”, i nostri più sinceri apprezzamenti per la cura e la professionalità che nel corso dei decenni sta via via dimostrando agli utenti che amano l’italiano.

Lo si deve ammettere per forza, è tutto molto, molto triste. Resta da capire se ci sarà un giorno, in un futuro si spera non troppo lontano,  l’agognato ritorno alle origini del nostro autoctono idioma. Se ci sarà presto finalmente dietro l’angolo una più che auspicata inversione di marcia, con la presa di coscienza da parte degli organi competenti e delle categorie professionali di riferimento a dare un taglio netto a questo penoso degrado linguistico.

Non se ne può proprio più. Tra i “senza se e senza ma”, i “piuttosto che” a caso, l’inflazionato “diciamo”, gli “assolutamente sì”, gli “assolutamente no”, gli “ok”, i “revenge porn”, i “recovery plan” o “recovery fund”. Non si può che auspicare un prossimo rinascimento lessicale che ci accompagni definitivamente lontano da questo buio, tetro, angosciante “Bassissimo Medio Evo” della nostra bella lingua italiana.

Caro Dante, tanti auguri!

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